Moltissimi cani catturati in meridione, che vivono condizioni di vita semi-selvatiche, cioé ai margini delle concentrazioni urbane, sono cani con scarsa o nessuna socializzazione con l’umano.
Infatti, le possibilità che possano integrarsi o essere integrati in tessuti sociali altamente antropizzati, con forte componente umana e scarse risorse ambientali, sono molto basse.
Questo avviene perché i cani non sono tutti uguali, così come non lo sono gli esseri umani.
Le classificazioni etologiche, di cui spesso si sente parlare impropriamente, hanno significato esaustivo solo quando sono espressione di osservazione dell’animale nel suo contesto naturale e senza nessuna influenza da parte dell’osservatore che le descrive.
Inoltre, le razze dei cani hanno subito una forte influenza dalla selezione fatta e dalla loro vicinanza con l’umano. Queste componenti coevolutive (lasciamo perdere il senso etico, non è questo il senso del mio artico), hanno portato differenze sostanziali in termini comunicativi, sociali, culturali ed espressivi tra il cane di razza e il suo progenitore cane primitivo.
Ad esempio: lo spettro motivazionale di un Cavalier King è molto diverso da quello di uno Spizt e i due pur avendo un etogramma di base sovrascrivibile a quello dei cani semi-selvatici, questi ultimi molto più vicini al cane primitivo, hanno etogrammi e spettri vocazionali, sociali, ambientali e culturali molto diversi tra loro. Gli individui che si sono evoluti in contesti di vita molto distanti tra loro, inevitabilmente hanno usi e costumi diversi a volte addirittura divergenti, anche se appartenenti alla stessa specie.
Ciò significa che l’ambiente in cui una specie vive, cresce ed evolve culturalmente genera diversità comportamentali, lo diceva Darwin già più di un secolo fa.
Ad esempio: se parliamo di umani per comprenderci meglio, l’etogramma di base può affermare che l’umano cammina in posizione eretta, usa le mani per costruire utensili, ha un comunicazione verbale con i propri simili. Ma non può essere trascurato che un umano che vive al Polo Nord abbia un etogramma evolutivo molto lontano da un Masai che vive in Kenia.
E se generalmente e superficialmente affermiamo che gli umani comunicano verbalmente, ed è vera come affermazione, possiamo affermare pure che non è sufficiente, infatti il keniano e il lappone parlano due lingue diverse e non si comprendono affatto. Questo vale anche per i cani.
Ma non è solo un discorso lessicale o dialettale, di fatto un Keniota portato in Alaska e viceversa, un Lappone portato in Kenia, potrebbero manifestare comportamenti non adattativi in quei contesti.
Comportamenti che possono essere descritti, come nei cani patologici. Sono infatti espressioni semeotiche, di contesto disfunzionali. Inoltre è necessario fare anche un’altra valutazione, quando si parla di patologia del cane deportato dal Sud Italia al Nord. Si chiama eziologica che è legata molto alla resilienza (la capacità di adattarsi al cambiamento). È necessario indagare quali sono le cause ambientali che innescano il meccanismo che portano l’animale ad avere comportamenti incompatibili in quel determinato ambiente, in cui è stato forzatamente inserito senza esperienze per affrontarlo e determinando un processo definito eziopatogenetico.
Purtroppo, quando accadono queste cose e vi assicuro che accadono spesso, si parla di mancata integrazione, o di integrazione disfunzionale, una vera e propria sindrome (complesso di cause sovrapposte a tante con-cause) da privazione somato-sensoriale.
La privazione sensoriale non rende capaci i cani semi-selvatici di integrarsi, spesso questo stato patologico (perché è patologico rispetto all’ambiente) porta con se l’aggravarsi del soggetto.
Il continuo non adattamento e le poche risorse che ha il cane mal-trattato, lo porteranno verosimilmente a ulteriori manifestazioni patologiche, subentreranno nuove patologie: da attacchi di panico, a fasi reattive difensive od offensive, ipercineticità e ipersensibilità. Queste descritte sono le più frequenti e possono anche essere presenti alcune contemporaneamente.
È verosimile pensare o immaginare, che queste manifestazioni patologiche non si sarebbero presentate, se i cani semi-selvatici non fossero stati deportati in città del Nord, questo punto risulta essere chiaro a tutti i professionisti competenti.
Ma adesso, che il cane semi-selvatico e qui, nelle nostre città. Cosa serve pensare al passato che sarebbe potuto essere? Oggi per quei cani non lo è più, oggi loro vivono come noi del qui e ora!
Se da una parte ritengo corretto denunciare questa situazione per tentare di interrompere definitivamente la tratta dei cani, ancora di più denunciarla in modo corretto, può significare creare i presupposti per innescare una grossa inversione di tendenza, in tempi rapidi.
Ma adesso, vorrei tornare ai cani semi-selvatici, quelli che oggi sono in difficoltà per le ragioni di cui sopra ma comunque ormai adottati e quindi con la necessità di essere curati. Affinché possano integrarsi, almeno in parte, alla loro condizione di vita attuale.
Gli approcci alle patologie sopra descritte, se pur indotte dalle ragioni espresse, possono essere: di tipo esclusivamente medico, di tipo esclusivamente riabilitativo, oppure l’una e l’altra insieme attraverso l’approccio multidisciplinare.
Nella mia esperienza, maturata negli anni e attraverso il confronto e lo studio con colleghi Istruttori e i Medici comportamentalisti, ho optato per la terza opportunità.
Promuovo così dal 2010, l’approccio multidisciplinare e descrivendo le basi teoriche e applicative del modello cognitivo relazionale applicato al cane e al sistema famiglia interspecifico.
Il cane nella famiglia, il cane è parte della famiglia. Il sistema famiglia vive il disagio.
La famiglia diventa punto centrale del successo della riabilitazione del cane, i componenti tutti si ne prendono cura.
Il medico intercetta la patologia, consapevole delle cause sopra descritte ma seppur anch’egli conscio che possano essere frutto di un inserimento in contesto antropico non di successo. Conoscendo le cause che presumibilmente hanno generato la malattia, non mette nessuno al riparo di ignorare che comunque la malattia è in corso ed è presente.
Le passeggiate in ambiente ipo-stimolante, come nei boschi o lunghi i fiumi possono soltanto mascherare il sintomo, nascondendo la causa che lo evidenzia, ma attenzione tornando nell’ambiente domestico il sintomo inesorabilmente tornerà. Gli studi moderni legati alle neuroscienze cognitive affermano infatti che per curare un cane bisogna lavorare sulla causa e nel contesto dove si presenta non sul sintomo mimetizzando la causa.
Un esempio per comprenderci meglio, potrebbe essere quello di un umano che viene trasferito in una metropoli accanto ad un inceneritore, si ammala di cancro, cosa serve affermare che se non fosse andato a vivere in quel posto in quella città non si sarebbe ammalato? Altresì vi renderete conto che pensare di portarlo in campagna ogni tanto possa far regredire il suo carcinoma lo giudichereste perlomeno assurdo o elitario.
Ormai quel signore il cancro ce l’ha e purtroppo bisogna curarlo e a volte è necessaria anche la dolorosa chemioterapia.
Stabilito che vogliamo tentare di curare il cane semi-selvatico affronteremo il percorso terapeutico e riabilitativo.
Il medico farà una valutazione non emotiva sul paziente cane.
Il “poverino” e la polemica, come: “sono brutti e cattivi quelli che ti hanno messo in queste condizioni di vita” porterebbero a nulla. Pertanto il Medico utilizzerà altri canali, quello scientifico, quello etico e lo farà in coscienza, prendendosi carico del paziente cane. Per farlo in termini di scienza e coscienza impiegherà tutti i mezzi diagnostici e terapeutici che ha a disposizione per abbassare lo stato oggettivo di disagio del cane.
Ma non è finita qui. Il cane in disagio e la famiglia possono contare anche su un’altra risorsa, altrettanto fondamentale verso il ben-essere del cane, l’istruttore riabilitatore.
L’Istruttore riabilitatore svolge un ruolo fondamentale, come quello medico, si occupa di dare alla famiglia e al cane nuovi orizzonti interpretativi per affrontare i problemi che riscontra.
Realizza così un progetto riabilitativo facendosi carico di creare da prima i presupposti affinché il cane e i proprietari possano affrontare una vera e propria ristrutturazione cognitiva e poi procederà con una riabilitazione sistemica.
Ciò significa, che il cane e la famiglia affronteranno un percorso legato ad intercettare le poche risorse del cane e impareranno a metterle a disposizione per un cambiamento di successo integrando il saper fare qualcosa con le difficoltà del non saper far tutto.
Il primo passo si chiama destrutturazione. L’obiettivo e poter dare giorno dopo giorno significati diversi alle paure del cane e all’impotenza percepita dei proprietari nell’affrontarle. Si traccia così un percorso legato alla consonanza intenzionale del sistema, imparare cioè a comunicare in modo efficace con il cane, sottolineando ai proprietari che comunicare con il cane significa soprattutto saperlo ascoltare nei suoi punti di forza e nelle sue vulnerabilità.
Successivamente l’Istruttore affronterà una ristrutturazione sistemica. Offrendo al cane sostenuto dalla famiglia nuove strategie per affrontare le paure, le irritazioni, le ipersensibilità del cane attraverso nuove risposte. Risposte, che all’inizio il cane potrebbe verosimilmente far fatica ad accettare. Però quando saranno comprese, non solo saranno accettate dal cane ma varranno per costruire (ristrutturazione) nuove esperienze molto meno costose per il soggetto in termini di disagio. Così il sistema famiglia con il cane cane in disagio avranno maggiori competenze espressive, in breve tempo i proprietari saranno in grado di orientare il percorso proposto in modo autonomo e virtuoso, i margini di miglioramento saranno evidenti in tempi ragionevolmente brevi per ritrovare un buon equilibrio.
Allora, in questa ultima fase appena descritta, se il medico aveva nel suo primo intervento stabilito un intervento con una terapia biologica, utilizzando farmaci (è necessario sottolineare come alcuni farmaci possono offrire non solo stati di maggiore calma, dove l’apprendimento è possibile per il cane ma creano anche processi chiamati in neurobiologia “neurogenesi”, cioé la formazione di nuovi neuroni pronti ad accogliere quanto propone l’istruttore con i famigliari umani al cane), una volta accertato che il processo virtuoso in atto, sopra descritto, provvederà con gioia a rivalutare la immediatamente la scelta biologica “obbligata” e in breve tempo prescriverà la sospensione dell’eventuale farmaco, prodotto naturale, nutraceutico o quanto l’atto medico lo ha portato a prescrivere.
Questo vuole essere il mio contributo ai cani semi-selvatici e non solo a loro, ma a tutti i cani che nel terzo millennio in relazione del ben-essere, ritengo abbiano il diritto di essere curati e di professionisti seri che se ne prendano cura.
Sicuramente quanto ho scritto sarà migliorabile e anche criticabile.
Ma l’ho espresso in maniera costruttiva, non dogmatica, non violenta e neppure in nome della mia verità assoluta contro le bugie e le falsità di chi la pensa diverso da me.
Attilio Miconi